C’è un giorno dell’anno in cui via dei Fori Imperiali diventa un arcobaleno. Sono i colori dei podisti che chiedono ai turisti di farsi più in là e si prendono uno dei selfie più famosi del mondo, quello con il Colosseo alle spalle. Spesso c’è la musica del Gladiatore a precedere il via, anzi i via perché ormai il mare di chi corre si divide per onde: “Scatenate l’inferno”. A quel punto tocca a una pioggia di coriandoli e la maratona somiglia a una repubblica autonoma, una città nella città, una scatola magica fatta di cose solo apparentemente contrapposte: i sorrisi alla partenza, la fatica all’arrivo. Ma c’è pure chi sovverte questa regola, come Firehiwot Dado, sorridente erede di Bikila a piedi nudi qualche anno fa. I runner vengono spesso da lontano, la metà generalmente sono stranieri, ma danno l’idea – appena dopo lo sparo – di sentirsi a casa. Tutti, senza eccezioni.
Per chi è romano, invece, la maratona è un gioco di prestigio: quegli stessi luoghi, attraversati in auto o in scooter, spesso sequestrati dal traffico, dal nervosismo, dal pericolo, si scoprono improvvisamente tuoi tifosi. Per chi viene da fuori, invece, i 42 chilometri e 195 metri sono una formidabile guida turistica perché, e più piano vai e più è così, gli occhi dei podisti sanno guardare a volte più in profondità. E magari pure uno sguardo o l’incoraggiamento di uno sconosciuto è un originale punto di ristoro per andare avanti anche quando si incontra quella che un grande allenatore come Oscar Barletta definiva la “strega” e che oggi è universalmente conosciuto come il “muro”. Il punto più difficile della gara. Nella grande bellezza di Roma, può capitare di trovarne uno più basso del solito. E i coriandoli in carne e ossa della partenza diventano lungo il percorso i coriandoli dell’anima.