LA SIGARETTA DI VIGNERON SPENTA DA BUBKA

Come quattro anni prima, il Golden Gala fa il supplente dell’Olimpiade. Il 31 agosto del 1984, Sergey Bubka e Thierry Vigneron si ritrovano all’Olimpico per il meeting romano inventato da Primo Nebiolo. Nel clima afoso della Capitale è presente sia chi era ai Giochi di Los Angeles sia chi non c’era per il boicottaggio dell’Unione Sovietica e dei suoi più vicini alleati. Fa sempre molto caldo quando la gara del salto con l’asta entra nel vivo con la sfida fra il russo e il francese.

La “guerra stellare” la definirà il giornalista Giorgio Cimbrico. Succede di tutto di più in questo spazio d’aria a sei metri dal terreno. Una partita a scacchi, una corsa a inseguimento, le montagne russe fatte salto con l’asta. Ci siamo. È di Vigneron lo scacco al re: 5,91, record del mondo. Alla stessa misura, Bubka sbaglia, poi si tiene i due tentativi restanti alla quota successiva.

Intanto il francese fuma, proprio così, fuma: una “Gauloise”, diranno i testimoni a distanza ravvicinata. L’ucraino, però, sa rispondere: 5,94, altro record del mondo! Stavolta a Vigneron non riesce la parata e risposta: si arrende. Il pieno di emozioni è finito perché Bubka sfida senza successo i 6 metri. Arriveranno l’anno dopo. Insieme con una carriera formidabile che farà del saltatore di Donetsk il più grande astista della storia.

Nella “pancia” dell’Olimpico, un disegno colorato ricorda l’impresa di Bubka e Vigneron, che prendono posto nel pantheon dello stadio, insieme con i vari Berruti, Simeoni, Mennea, Baggio, Riva, Vasco Rossi… Bubka sarebbe tornato a Roma diversi decenni più tardi, in un momento delicato, dopo lo scoppio di una guerra purtroppo vera e non metaforica. Ma questa è un’altra storia.

QUEI SALTI IN LUNGO DAVANTI A CASA CARAVAGGIO

L’atletica si sta rinnovando. In pista e su strada le scarpe di nuova generazione stanno portando a grandi miglioramenti nelle gare di corsa, ma la regina delle Olimpiadi sta cercando anche nuovi modi per espandere il proprio pubblico e coinvolgere sempre più persone.

Meeting serali, manifestazioni con tanta musica, eventi interattivi e dinamici, e soprattutto l’atletica nelle piazze: le competizioni “urbane” sono sempre più numerose. Siamo ormai abituati a vedere gare cittadine, soprattutto di salto con l’asta, salto in alto e getto del peso, ma negli scorsi anni c’era stato anche un tentativo ancor più audace e deciso in questa direzione: la “Fly Europe”.

Si trattava di una manifestazione a cui prendevano parte Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Si svolgeva nelle piazze e prevedeva gare di velocità, salti in estensione e salti in elevazione.

Nel 2017 a Piazza del Popolo (luogo che ospita spesso l’atletica, come nel caso del Miglio di Roma), con il suggestivo sfondo di Santa Maria del Popolo e la chiesa dei capolavori di Caravaggio, si tenne la tappa italiana. Salto in lungo, salto con l’asta e 30 metri le specialità.

Alla fine delle due ore di spettacolo furono sommati i punteggi e incoronata la nazione vincitrice della tappa romana del Fly Europe. Vittoria alla Germania, secondo posto all’Italia e come immagine più bella quella del salto di Laura Strati immersa nel fascino di una piazza che ha una circonferenza lunga come una pista di atletica…

PIGNI: LA DONNA CHE INSEGNÒ A CORRERE ALLE ITALIANE

Paola Pigni insegnò alle italiane tutte le coniugazioni del verbo CORRERE. Lo fece in una lunga carriera atletica che spaziò dalla velocità alla maratona, che disputò nel 1971 in una temporalesca edizione della San Silvestro a Roma, dove segnò un tempo soltanto di 43 secondi superiore alle tre ore.

Erano i tempi in cui la corsa lunga era un pianeta proibito per le donne. Lei sfidò tutte le convenzioni e sfoderò un repertorio larghissimo. Neanche le 13 operazioni chirurgiche che frastagliarono il suo percorso le tolsero la voglia di andare avanti in un itinerario impreziosito dalla medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Monaco del 1972 sulla distanza dei 1500 metri.

Nel frattempo, Paola – deceduta nel 2021 all’età di 75 anni – aveva cambiato spartito (a proposito, era figlia di un tenore e di una soprano): chiuse le fatiche agonistiche faceva da punto di riferimento ai cosiddetti tapascioni che si riunivano all’Acqua Acetosa.

Si rese conto di aver avuto un ruolo fondamentale nella storia dello sport delle donne, senza nessuna forma di presunzione o di snobismo. “Per trovare un senso allo sport non serve il record del mondo. Ognuna di noi ha un suo record del mondo da battere – scrisse sulla Gazzetta dello Sport per il suo settantesimo compleanno – Dobbiamo combattere quel senso di fragilità e di inadeguatezza che a volte ci blocca”.

Sapeva combattere le sue battaglie con il sorriso. Eccola sulla pista dello stadio dei Marmi intitolata a Pietro Mennea. L’atletica e lo sport italiano le devono moltissimo.

LA MARATONA DI ARESE, MAGO DELLA PIOGGIA

Ultimo giorno dell’anno a Roma. Il 1971 che dice ciao a tutti. Cenoni da preparare, amici da incontrare, sfide goliardiche. Anche di corsa. Una moda che diventerà poi tradizione, peraltro diffusa in tutto il mondo, a partire dalla mitica “Corrida” di San Paolo del Brasile.

Succede all’Acqua Acetosa con la Maratona di San Silvestro organizzata dal CUS Roma. C’è chi correrà per cinque chilometri, chi per 42 e 195 metri, ce n’è per tutti i gusti. Nel popolo dei podisti spunta anche il fresco campione europeo dei 1500 metri, Franco Arese. Molti addetti ai lavori sono presi in contropiede: dalla formidabile volata di Helsinki il passo verso la maratona non è così breve.

Viene immortalato con un atleta abituato a scatti molto più brevi: Adriano Panatta. Gioca a tennis ed è già qualcuno, anche se solo cinque anni più tardi vivrà la sua stagione d’oro. I due scherzano, sorridono, sembrano spassarsela nonostante lo sforzo che li attende. Adriano se la caverà con poco: preferisce la distanza più corta dove arriverà tre minuti e mezzo prima del suo predecessore Nicola Pietrangeli.

Franco no, Franco arriverà solo dopo due ore, 24 minuti e 48 secondi. E arriverà primo. Nonostante la pioggia battente e un giallo sul percorso che lo costringerà a correre altri otto chilometri quando pensava di essere vicino al traguardo. La “fuga” sulla maratona rimarrà un unicum nella carriera di Arese, ma tornando a Ostia, dove si allenava, il campione d’Europa confidò al suo amico e collega Franco Fava di aver vissuto quel giorno “la gara che mi ha appagato di più”.

PERIS, QUELLA FIACCOLA È UNA MEDAGLIA D’ORO

In genere l’ultimo tedoforo è un campione simbolo del Paese che organizza le Olimpiadi. Una medaglia d’oro. Un numero 1. Un personaggio conosciuto da tutti. Ci sono però delle eccezioni nella storia, per esempio quella di Roma 1960. Quando l’organizzazione italiana decise che a portare la fiaccola nell’ultimo tratto, accendendo il braciere olimpico nella cerimonia di apertura, dovesse essere uno studente.

Lo studente vincitore dei campionati scolastici di corsa campestre della provincia di Roma. E così Giancarlo Peris da Civitavecchia, il 25 agosto del 1960, viene chiamato a Roma per vivere l’attimo fuggente che gli diede e gli dà ancora una fama universale.

Lo dimostra questa copertina. Il giornale è prestigiosissimo: L’Equipe, il quotidiano sportivo francese, che decide prima delle Olimpiadi di Tokyo 2021 di organizzare un reportage proprio sugli ultimi tedofori e sceglie forse il meno conosciuto.

Forse proprio per questo Peris, oggi distinto signore con la barba bianca che tradisce la sua carta di identità e ieri mezzofondista di buon livello nonché studente appena reduce dall’esame di maturità, diventa un simbolo. Immaginiamolo quel giorno. Peris è arrivato con il treno fino alla stazione Termini, poi ha preso l’autobus ed è arrivato a Piazza Mancini. Allo stadio gli hanno dato la maglia bianca con la lupa e i cinque cerchi e si sono raccomandati di fare le cose per bene sui 350 metri, che deve percorrere, e i 92 scalini, che deve salire.

All’inizio non si rende conto dell’importanza di quel momento, poi qualcosa cambia: perché negli anni Peris diventa una figura storica. Lo chiamano, vogliono sapere. Lui, migliaia di volte, tira giù dallo scaffale della memoria quel giorno ricordando soprattutto una cosa: “La paura di inciampare…”

PAMICH: RECORD MONDIALE PRIMA DI ROMA-TORINO

Roma e Torino giocheranno, sono i tempi di orario unico per il campionato, alle 14.30. Ma l’Olimpico apre molto presto perché è anche il giorno dell’atletica. È il 19 novembre del 1961 ed è in programma una 50 chilometri di marcia in pista, 125 giri da inanellare per arrivare nella terra promessa del primato del mondo. Lo stadio è quasi vuoto, saranno tre o quattromila gli spettatori che hanno voluto seguire gli atleti sin dall’inizio. Sono in otto e fra questi ne spiccano due: Pino Dordoni è stato campione olimpico nove anni prima a Helsinki in un’impresa celebrata pure dallo scrittore Italo Calvino. Abdon Pamich, invece, 14 mesi prima ha conquistato la medaglia di bronzo nei Giochi di Roma e tre anni più tardi arriverà niente meno che all’oro. Cinquanta chilometri tutti in uno stadio somigliano a una condanna, la marcia ha bisogno di strade, di asfalto, di boati quando il battistrada sbuca fuori da qualche porta ed entra sulla pista. Ma Abdon Pamich non si annoia, ha il suo da fare: mentre Dordoni si arrende per un problema al fegato e la concorrenza si sgretola progressivamente (alla fine con lui arriverà soltanto Carlo Bomba), tira dritto.

Ha solo un momento di difficoltà all’inizio dell’ultimo terzo di gara, ma resiste con la maglia indossata per tutta la carriera, quella della Esso. Il gesto del marciatore sembra glielo abbiano cucito addosso.

 

Ora lo speaker lo incita, gli dice che è sotto la tabella di marcia per superare il primato del mondo del sovietico Lobastov. Intanto, lo stadio s’è riempito, l’arrivo è celebrato da cinquantamila applausi e Pamich ce l’ha fatta: 4 ore, 14 minuti, 2 secondi e 4 decimi. Per lui, anche i complimenti del centravanti della Roma, “Piedone” Manfredini. È il primato del mondo e diventa un altro pezzo della collezione dei suoi tanti trofei.

L’INFINITA MERLENE: STREGATA DAL SILENZIO DEI GELSI

Ha vinto tanto, tutto, spesso, a lungo. Con un solo vuoto nel curriculum: l’oro olimpico, che sfiorò sui 100 metri di Atlanta nel 1996 condannata all’argento sul fotofinish.

Merlene Ottey – giamaicana di nascita e di crescita, poi slovena come nazionalità sportiva a fine carriera – è un mito dell’atletica. Stefano Tilli, compagno d’amore e di pista diversi anni fa, non fa che ripetere: “È stata la più grande”.

La sua carriera è stata una storia che non riusciva a finire: corse pure a 50 anni, un record di longevità imbattibile. Per un bel po’ di tempo, cinque anni, mise su casa a Roma. Abitava nel quartiere di Talenti, ma era allo stadio dell’Acqua Acetosa, l’attuale Paolo Rosi, che la si poteva incontrare. Discreta, silenziosa, lontana. Non dava confidenza, anche se alle volte sbocciava un sorriso, e nascevano situazioni simpatiche, come quella in cui è immortalata mentre mostra i muscoli in compagnia di Stefano Tilli.

Un giorno di pieno agosto la si vede uscire fuori come dal nulla a impianto chiuso: forse un buco nella recinzione, fatto sta che si trovò lo stadio tutto per sé e la sensazione non doveva dispiacerle.

La verità era che in quelle corse, in quelle curve pennellate con un’eleganza sinuosa davanti ai gelsi, c’era la sua dimensione, il posto dove si sentiva a suo agio. Fuori c’era l’altra Roma, spesso ingabbiata nel traffico. Dentro riusciva ad isolarsi, come se su quella pista ci fosse soltanto lei a dialogare con le corsie, sulla stessa superficie su cui sarebbe diventato grande anche Marcell Jacobs. Inimitabile Merlene.

MAZZONE: PRIMA DEL PALLONE IL SALTO IN LUNGO

Che c’entra “Er magara” con l’atletica? C’entra eccome! A proposito, “er magara”, per chi non conosce il soprannome, era Carlo Mazzone, il simbolo della professione dell’allenatore di calcio. Anni ‘50: è partito il movimento dell’atletica romana fatto anche di società di “liberi”, ovvero non tesserati, che fanno il tirocinio sotto forma di gare con il Palio dei Quartieri, prima di accedere all’attività federale.

Nascono allora la Virtus Salario, la Vis suddivisa in tre, Nomentano, Centro ed Esquilino-Augusto, il Monte Mario, la Lungaretta e altre ancora. Già, nella Lungaretta c’è il dirigente Gaetano Quattrucci con a fianco il giovane Enrico Pitti, mezzofondista di belle speranze e futuro trascinatore dell’attività dell’Uisp negli anni ruggenti di Corri per il Verde. C’è uno slogan che fa fortuna di questi tempi, lo ha coniato Alfredo Berra, il giornalista-organizzatore-tuttofare dell’atletica. Poche parole semplici: portate al campo l’amico più vicino di casa.

Enrico Pitti lo prende in parola e si rivolge all’amico che abita all’Arco di San Calisto a Trastevere, un lungagnone forte che alla Farnesina salta 5,80 nel salto in lungo con le scarpe di gomma al primo apparire. Una rivelazione, ma lui fa il ritroso, poi confessa: “gioco a pallone co’ la Roma, spero de fa’ carriera, nun posso venì a core”. Finisce qui l’atletica di Carletto e cominciano tante altre storie: corse sotto la curva, promozioni, invenzioni tattiche, e poi Totti, e Baggio, e Guardiola… Ma per anni incontrando gli amici nei più disparati spogliatoi degli stadi italiani, si finiva per rivangare quel momento e lui con un sorriso tutto cuore chiosava: “Ma lo sapete che ero proprio bravo?”.

CAPANNELLE: LA DOMENICA DEI RE DEL CROSS

La settimana prima era toccato ai maratoneti. 1982, la prima Romaratona, la green line importata da New York sull’asfalto di Roma, Pippo Baudo che se la prende con gli effetti delle chiusure del traffico in diretta a Domenica In. Poi, lo testimonierà un’intervista diversi anni dopo, capirà. Capirà il fascino della corsa e di una domenica in cui le automobili per una volta non sono padrone di tutto.

Una settimana dopo è il 21 marzo, la grande atletica si trasferisce all’ippodromo delle Capannelle. Sono già i Mondiali di corsa campestre, ma per molti resiste ancora il vecchio e affascinante nome: Cross delle Nazioni. Dopo un avvincente testa a testa, l’etiope Kedir supera lo statunitense Salazar. Alberto Cova, futuro campione di tutto sui 10000 metri, è settimo. Nella gara femminile, Agnese Possamai è quarta.

Ma anche nella gara junior ci sono attimi di grande emozione. Succede quando Stefano Mei, futuro campione d’Europa dei 10000 e futuro presidente federale, si trova da solo stretto nella morsa della “dittatura” etiope. Finisce al terzo posto. Scriverà Sergio Rizzo su “Atletica”: “Mentre tutti gli facevano i complimenti, lui si dannava per la mancata vittoria”. Dietro di lui, altri italiani: Panetta sesto, Nicosia settimo. L’Italia junior a squadre è seconda. Dietro gli eredi di Bikila, ci siamo noi.

 

Capannelle resterà un luogo consacrato a un altro sport e a un altro mondo, quello dei cavalli. Ma l’ippodromo ha sempre di più una robusta identità multidisciplinare. Ha ospitato anche momenti di grande ciclocross e ha aperto le porte pure alla scuola di atletica del Roma Runners Club.

Con un occhio agli amatori e al loro mondo come dimostra lo sbarco da queste parti della Cardiorace.

I PODISTI IN MEZZO AGLI SGUARDI DI ANNA MAGNANI

È domenica mattina. Novembre. Il giorno di una piccola grande tradizione: una gara podistica. Corriamo al Tiburtino. Gli atleti sciamano silenziosi per riscaldarsi, altri già depositano le tute e le felpe nei gazebo dei gruppi sportivi. Scatta il conto alla rovescia. Ma qualcuno si attarda, merito e colpa degli occhi che puntano verso l’alto e incontrano il fascino di Anna Magnani. L’attrice di tante favolose interpretazioni, da Roma Città Aperta a Mamma Roma, ci guarda con tre espressioni che diventano una calamita, impossibile allontanare gli occhi da quelle immagini disegnate dallo street artist Lucamaleonte nell’ambito del progetto Roma Cares.

Se qualcuno ha ignorato Anna in partenza c’è una prova di recupero durante la gara, che passa e ripassa per quell’incrocio tra via della Vanga e via Mozart. Forse i più giovani non sanno della Magnani, del suo talento, della sua romanità, della sua storia. Una storia che ha a che fare, fra mille cose, anche con l’atletica, indirettamente. Perché fra i suoi amori ci sono stati due atleti che hanno frequentato l’atletica di alto livello: Goffredo Alessandrini, che fu suo marito, nel 1925 si laureò (ancora non si conoscevano al tempo) campione d’Italia dei 110 ostacoli; più tardi, Massimo Serato, praticò il lancio del giavellotto.

Chissà se a lei piaceva l’atletica. Ma intanto la domenica dei podisti sta finendo, c’è chi è andato al ristoro, chi è salito sul podio, chi maledice i classici acciacchi del corridore. Ci si dà appuntamento per la prossima volta. E a quel punto si alzano ancora gli occhi ancora attratti da quelle immagini. È il momento di dire: ciao Anna.