ROSOLINO: DALLA PISCINA AL MARE. MA DI CORSA

A Sydney, nel 2000, vinse la medaglia d’oro olimpica sui 200 misti in un paio di minuti, per la precisione un minuto, 58 secondi e 98 centesimi. Oggi, invece, Massimiliano Rosolino prova le sue emozioni agonistiche per un tempo molto più lungo. E sì perché il ragazzo di Napoli, che correva pure sul molo della sua Canottieri ai tempi della sua prima vita sportiva, adesso corre. A Roma, vicino all’Olimpico e a quello Stadio del Nuoto dove ha vissuto tante tappe del suo percorso che l’ha portato al trionfo australiano. Dieci chilometri per cominciare (alla Corsa di Miguel del 2017), poi mezza maratona (la Roma-Ostia più recentemente) e addirittura maratona (nella classicissima di Londra). Persino una tentazione chiamata triathlon.

Il Lungotevere è un posto per il jogging degli olimpionici, vista anche in zona la velista Alessandra Sensini, pure lei oro (nella classe Mistral) a Sydney, ma Max aggiunge una predisposizione speciale alla sua passione visto che a lui non bastano i chilometri in solitaria. E allora pazienza se non ci sono più medaglie d’oro da inseguire, la verità, parole sue, è che “se uno è un animale da gara, quel brivido, con la paura della sera prima, lo sente sempre”.

Così Rosolino concilia la solitudine degli allenamenti e la grande possibilità di socializzare nelle gare e chi corre da quelle parti, Ponte della Musica o Ponte Milvio che sia, non può non averlo incontrato almeno una volta. L’olimpionico ha anche una capacità unica di socializzare il suo sforzo, di prestarsi a fare da testimonial per il gruppo, sempre nella mischia, sempre nel gruppo, mai con l’aria snob di chi vuole marcare una differenza con gli altri. Correre è divertirsi. E farlo da solo a volte non può bastare.

LA PISTA DEI SOGNI CHE È SALITA PURE SUL PODIO

C’era una volta un professore di educazione fisica che aveva un sogno. Un sogno inseguito, a lungo. Il sogno era costruire una pista di atletica, una pista che avrebbe circondato la scuola consentendo alle ragazze e ai ragazzi della scuola di poter correre, ma anche, con le opportune pedane, saltare e lanciare.

Il professore, che si chiama Gianni di nome e Alessio di cognome, non si scoraggiò quando il sogno non voleva proprio sapere di realizzarsi. Problemi economici, burocratici, logistici. Superato un ostacolo, compariva una trappola. Ma chi la dura la vince. E così, la scuola “Laparelli”, quartiere di Torpignattara, ebbe la sua pista. Inaugurata in una mattinata piena di grandi personaggi, fra i quali Pietro Mennea e Gianni Rivera, allora delegato allo sport del Comune di Roma. Una giornata indimenticabile, che riuscì a seminare tanto.

Perché intanto in pista cominciarono a crescere fra le altre anche due atlete paralimpiche: da Laura Coccia, a cui avevano detto “lascia perdere, lo sport non è per te, al massimo mettiti a fare l’arbitro se vuoi”, poi finita per una legislatura addirittura in Parlamento, ad Oxana Corso, che sarebbe salita sul podio dello sprint nelle Paralimpiadi a Londra nel 2012, conquistando due medaglie d’argento nei 100 e nei 200 metri e diventando una delle atlete simbolo del movimento. Ma intorno a loro s’è fatto e si fa tanto. Pure una formidabile scuola di circo. E naturalmente, tanta atletica. A tutte le velocità. In tutte le corsie. Un sogno realizzato merita questo e altro.

IL VIA DELLA MARATONA FRA I CORIANDOLI DELL’ANIMA

C’è un giorno dell’anno in cui via dei Fori Imperiali diventa un arcobaleno. Sono i colori dei podisti che chiedono ai turisti di farsi più in là e si prendono uno dei selfie più famosi del mondo, quello con il Colosseo alle spalle. Spesso c’è la musica del Gladiatore a precedere il via, anzi i via perché ormai il mare di chi corre si divide per onde: “Scatenate l’inferno”. A quel punto tocca a una pioggia di coriandoli e la maratona somiglia a una repubblica autonoma, una città nella città, una scatola magica fatta di cose solo apparentemente contrapposte: i sorrisi alla partenza, la fatica all’arrivo. Ma c’è pure chi sovverte questa regola, come Firehiwot Dado, sorridente erede di Bikila a piedi nudi qualche anno fa. I runner vengono spesso da lontano, la metà generalmente sono stranieri, ma danno l’idea – appena dopo lo sparo – di sentirsi a casa. Tutti, senza eccezioni.

Per chi è romano, invece, la maratona è un gioco di prestigio: quegli stessi luoghi, attraversati in auto o in scooter, spesso sequestrati dal traffico, dal nervosismo, dal pericolo, si scoprono improvvisamente tuoi tifosi. Per chi viene da fuori, invece, i 42 chilometri e 195 metri sono una formidabile guida turistica perché, e più piano vai e più è così, gli occhi dei podisti sanno guardare a volte più in profondità. E magari pure uno sguardo o l’incoraggiamento di uno sconosciuto è un originale punto di ristoro per andare avanti anche quando si incontra quella che un grande allenatore come Oscar Barletta definiva la “strega” e che oggi è universalmente conosciuto come il “muro”. Il punto più difficile della gara. Nella grande bellezza di Roma, può capitare di trovarne uno più basso del solito. E i coriandoli in carne e ossa della partenza diventano lungo il percorso i coriandoli dell’anima.

DUPLANTIS E QUEI “MATTI” DELL’ASTA ALL’INFERNETTO

Era il 2019 e Armand Duplantis era ancora lontano (ma neanche troppo) dal diventare l’imperatore dell’asta. Il saltatore, madre (e nazionalità sportiva) svedese e padre statunitense, scelse di prepararsi per il Mondiale di Doha nel centro sportivo delle Fiamme Gialle, all’Infernetto, un impianto a cinque stelle per i tanti campioni che ci si sono allenati, da Fabrizio Donato a Caterine Ibarguen, grandi specialisti del salto triplo.

Mondo, scusate il gioco di parole derivante dal suo soprannome, si divertiva un mondo. Un pomeriggio non si sentiva a posto fisicamente e decise di fare da spettatore a una gara non ufficiale in cui si sarebbe esibito il miglior specialista azzurro, Claudio Stecchi. Viaggiava per la pedana un po’ pigramente con l’aria di chi ancora non la sa lunga. Qualche settimana dopo sarebbe salito sul podio dei Mondiali con tanto di emblematica foto sul materassone dell’asta insieme ai suoi compagni di medaglia che l’avevano preceduto, Sam Kendricks (il vincitore) e Piotr Lisek. Poco meno di due anni dopo, qualche “world record” in mezzo (tra cui il primato del mondo outdoor di 6.15 stabilito al Golden Gala 2020), arrivò poi il titolo olimpico.

Ma torniamo all’Infernetto. A un certo punto, prima che la gara cominciasse, Duplantis cominciò a sorridere come se fosse stato davanti a un cartone animato. Sembrava ancora più giovane di quanto fosse in realtà, ma si riteneva un veterano perché “avevo cominciato prestissimo a usare l’asta” visto che si trattava del mestiere sportivo del papà Greg. La risata di “Mondo” fu provocata da Giuseppe Gibilisco, campione del mondo del 2003, e allenatore di Stecchi, che stava “scalando” i ritti per piazzare l’asticella alla misura giusta. Un vero uomo ragno. Che fece dire a Duplantis: “Noi dell’asta siamo un po’ tutti matti”.

IL DISCOBOLO LANCELLOTTI È TORNATO A CASA

Ha più o meno 18 secoli, ma se li porta benissimo. Guardando polpacci e addominali, sembra quasi che da un momento all’altro il discobolo Lancellotti possa muoversi, diventare carne e ossa, lanciare. La scultura è esposta a Palazzo Massimo, sede del Museo Nazionale Romano. La sua vita è stata piuttosto agitata, soprattutto negli ultimi decenni. Fu scoperto presso Villa Palombara, all’Esquilino, nel 1781, e deve il suo nome alla famiglia Lancellotti che ne deteneva la proprietà. Hitler se ne innamorò fino al punto di costringere Mussolini a tradire la legge che stabiliva le “norme per l’inalienabilità delle antichità e delle Belle Arti”. L’ingombrante alleato nazista voleva a tutti i costi quell’atleta di marmo che probabilmente gli ricordava una scena di “Olympia”, il film commissionato a Leni Riefenstahl sui Giochi di Berlino 1936. Il discobolo di Mirone si scioglie in una sorta di macchina del tempo che lo porta nel ventesimo secolo con le sembianze di un atleta tedesco, Erwin Huber. Il 20 aprile 1938, giorno del compleanno di Hitler, ci fu la prima di “Olympia”. Meno di un mese dopo, il 18 maggio, la statua partì per la Glyptothek di Monaco di Baviera.

Un affare perfettamente legale: la Germania pagò 16 milioni di lire all’accondiscendente alleato, transazione legale che a fine conflitto ne ostacolò la restituzione. Il discobolo, per fortuna, si salvò dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale: il 16 novembre 1948 – anno della vittoria del discobolo Adolfo Consolini alle Olimpiadi di Londra e atleta prescelto per il giuramento olimpico 12 anni dopo – ritornò a Roma, dove vive ancora. Chi lo incontra per la prima volta è incuriosito soprattutto dallo sguardo rivolto all’indietro, come se volesse specchiarsi nella perfezione del gesto. Un gesto immortale.

CORRI PER IL VERDE: VADE RETRO CEMENTO

C’era una volta Corri per il Verde. C’era e c’è ancora a distanza di più di cinquant’anni dalla prima volta. Un circuito di corse campestri: scritta così non è una grande notizia, chissà quanti ce ne sono. Se gratti un po’, però, ecco che compare la storia: i primi anni ‘70, le lotte per difendere il verde dall’assalto del cemento, la scoperta dei parchi archeologici, la Roma di periferia che si prende il centro del palcoscenico podistico, l’atletica che sta diventando anche jogging per poi arrivare alle grandi maratone di massa. Tutto nasce dalle idee di un ispirato giornalista, Giuliano Prasca, che inventa questo viaggio autunnale per la città. Villa Borghese e l’Insugherata (allora senza cinghiali…), la Caffarella e il Pineto, Centocelle e Cinecittà: verde curato, verde assediato, verde spelacchiato, verde da difendere.

Qualcuno pensa a vincere, molti soltanto ad arrivare. E a vedere il proprio nome sul giornale. Per quello, però, bisogna aspettare 48 ore: solo al martedì, e nell’edizione delle cinque del pomeriggio, il quotidiano “Paese Sera” pubblica classifiche e fotografie. Corri per il Verde è una mezza rivoluzione anche per un altro motivo: è la scoperta della corsa “per”, l’atletica come un modo per sostenere una causa, una formula che diventerà sempre più diffusa e che oggi alimenta gran parte del calendario podistico, a Roma e altrove.

La corsa, organizzata da sempre dall’Unione Italiana Sport per Tutti di Roma, è ancora viva e vegeta e si è sempre più specializzata in un promettente vivaio frequentato da migliaia di giovani. Non solo ricordi o memoria, ma anche progetti, futuro, sogni. Guardando l’Aniene a distanza ravvicinata o in mezzo alla bellezza mozzafiato di Ostia Antica. L’importante è correre. E farlo “per” qualcosa è ancora più bello.

BOMBA, MARCIA FRA I PADIGLIONI DELL’ELETTROSHOCK

Marciava. Qualche volta vinceva. Una in particolare: la Roma-Castelgandolfo del 1956. Ma i grandi non c’erano, gareggiavano alle Olimpiadi di Melbourne. Soprattutto si allenava. Sempre, tanto.

Carlo Bomba, Carletto per gli amici, era un personaggio che, quando lo conoscevi, ti sembrava di averlo incontrato mille volte. Aveva un che di familiare, ti veniva voglia di carezzargli la pelata e di chiedergli perché s’era innamorato della specialità più faticosa dell’atletica. Lui rispondeva e nei suoi discorsi faceva capolino spesso il quartiere, il suo quartiere: Monte Mario.

Raccontava degli autisti dell’Atac che gli suonavano il clacson per incoraggiarlo nelle sue collezioni di chilometri. E di un luogo del cuore: il parco del Santa Maria della Pietà. Quello che ospitò fino alla fine degli anni ’70 un manicomio, oggi trasformato in Museo della Mente. Ogni tanto, incontrava quelle persone reduci dai padiglioni dell’elettroshock, le incrociava e le salutava. Un’umanità sofferente su cui magari Carletto avrà riflettuto mille volte nei pensieri che facevano compagnia ai chilometri. Quando il manicomio chiuse, Bomba aveva lasciato la marcia per la corsa, ma era ormai un grande ex. Che però non riusciva a fare a meno di quel luogo, di quegli alberi, di quei padiglioni, reperti di un tempo lontano.

Continuava ad allenarsi in quello che ormai era diventato un parco. Poi lasciò Roma e Monte Mario, finì a Tragliatella di Fiumicino da dove raggiungeva ogni mattina la spiaggia di Marina di San Nicola per continuare a muoversi. Al primo pomeriggio, però, non c’era verso: prendeva il trenino e tornava al Santa Maria della Pietà su una panchina che era diventata la sua casa. Pensando ai chilometri dei suoi giorni migliori.

CALCATERRA, VILLA PAMPHILIJ METRO PER METRO

Sembrava quasi che Giorgio Calcaterra volesse aspettare l’apertura al pubblico di Villa Pamphilj per venire al mondo.

Il 1972 è infatti l’anno della nascita del centochilometrista più famoso, collezionista di maratone e uomo simbolo dell’atletica fuori dagli stadi. Ma anche quello in cui, il comune di Roma può finalmente aprire le porte del grande parco che negli anni diventerà il polmone verde ideale per gli amanti del jogging. Calcaterra e Villa Pamphilj o a Villa Pamphilj, una sorta di sindaco di questi viali che conosce metro su metro e su cui si allena praticamente da sempre, da quando – il 14 marzo del 1982 – scoprì la corsa affrontando con suo padre la Stracittadina dell’allora nascente Romaratona. Difficile calcolare quanti chilometri abbia percorso all’interno di Villa Pamphilj. Tanti, tantissimi. Con il sole, la pioggia o la neve.

Tempo fa, Giorgio mise insieme i suoi stati d’animo di quando correva in Villa. “1 gennaio, ore 7, nebbia che si alza dai prati, piccole stalattiti sulle fontane, laghetto ghiacciato”. E ancora: “21 marzo, ore 10, cielo azzurro, mimose fiorite sugli alberi, margherite sui prati e ragazze allegre che corrono”. Prima di una 100 chilometri la sua abitudine è un lungo, infinito allenamento su questi sentieri. Una volta, nel 2007, entrò all’ora di pranzo e corse per 88 chilometri fino alla chiusura. Impossibile calcolare quante persone abbia incontrato. Sicuramente è uno che dà del tu a questo luogo, a queste atmosfere, a questi scenari.

Insomma, ogni volta che si entra in Villa, magari per camminare o correre o semplicemente per leggere su una panchina, non puoi non pensare che da un momento all’altro possa uscire lui, con il suo sorriso, la sua falcata, le sue occhiate a ciò che lo circonda. Questa è casa sua.

PIETRO MENNEA E QUEL “COMIZIO” A VILLA ADA

Che fine avranno fatto le ragazze e i ragazzi di quel giorno? Il giorno in cui, il 4 dicembre del 2004, Pietro Mennea si infilò cappotto e sciarpa e rispose “arrivo” alla telefonata di Pino Papaluca, barbiere e ultramaratoneta protagonista di mille imprese, dalla Amman-Bagdad contro l’embargo in Iraq alla Mosca-Roma per la pace nell’anno del Giubileo del 2000, tutto rigorosamente a piedi.

A Roma, Pietro ha vissuto e vinto tantissimo, e a lui sono dedicati tanti luoghi della capitale. Non solo, infatti, il meraviglioso Stadio dei Marmi a due passi dal Coni: ad esempio, recentemente è stata rinnovata e intitolata al velocista pugliese anche la pista del plesso scolastico “Rosa Parks” a Centocelle. Ci sono tante immagini che testimoniano le sue gesta romane, dal trionfo nei 200 metri degli Europei del 1974 alla prima edizione del Golden Gala del 1980 quando ribadì il successo olimpico davanti agli statunitensi che il giorno della sua vittoria allo stadio Lenin non c’erano per il boicottaggio.

Eppure, questo scatto autunnale, all’ingresso di Villa Ada, lui con il megafono e loro con la maglietta della “Corsa della pace e per i diritti” organizzata da Papaluca, ha una dolcezza strepitosa. Quel giorno, Pietro parlò della Casa del Nino in Perù, nell’ambito di una raccolta fondi organizzata proprio dal barbiere ultramaratoneta. Non fu la sola occasione. Perché a un certo punto della sua vita, Mennea scelse di portare in giro le sue medaglie d’oro per legarle a tante iniziative sociali. E diventò campione olimpico un’altra volta.

BOLDT: UN SALTO (CON UNA GAMBA SOLA) NEL FUTURO

C’è un giorno da segnare in rosso nella storia del movimento paralimpico italiano e mondiale: il 2 aprile del 1981. 24 ore prima si era svolto a Roma il convegno “L’handicappato e lo sport” organizzato dal Coni. E pochi mesi prima era nata la Federazione Italiana degli Sport Handicappati.

Erano proprio i Giochi Internazionali per handicappati a cui avrebbero preso parte 500 atleti, gli handicappati. L’espressione è stata travolta dal tempo e dalla diffusione degli sport fra le persone con disabilità, ma allora era un vocabolo che andava per la maggiore.

A prenderla a schiaffi fu un canadese di 23 anni, Arnie Boldt, che saltò in alto 2 metri e 4 centimetri su una gamba sola allo stadio dei Marmi. L’emozione per l’impresa dell’atleta amputato fu enorme: se ne parlò nei programmi televisivi, i giornali cominciarono a scoprire un mondo fino a quel momento confinato in una periferia consolatoria lontana dal centro della scena.

Ci si interrogò su quel balzo prodigioso compiuto senza l’ausilio della protesi. Ancora a Roma. In cui era già stata scritta un’altra pagina preziosa: ventuno anni prima la città aveva ospitato le prime Paralimpiadi organizzate nella stessa sede delle Olimpiadi, con la cerimonia di apertura organizzata all’Acqua Acetosa. A distanza di un paio di chilometri di Lungotevere, grazie allo straordinario canadese, questo movimento scoprì una nuova dimensione. Da quel momento, il movimento paralimpico, all’interno del quale Boldt sarebbe rimasto tanti anni provando anche il ciclismo, era entrato nel futuro.