ANNA CATALANO: L’ATLETICA A COLORI

Anna Catalano era la primavera. Le piaceva quella stagione. Il sole di Roma, le prime gare all’aperto, l’atmosfera di Caracalla: il suo stadio, i suoi amici, le sue amiche. Amicizia è la parola che spiegava meglio il suo modo di vivere l’atletica. L’inizio a 13 anni col fratello Paolo, velocista pure lui fino a vestire l’azzurro nella staffetta 4×100 dei Mondiali dell’87. Da bambini c’erano le sfide sui 20 metri, sempre molto equilibrate.

Alla scuola media “Jacopo Ruffini”, Mostacciano, il professor Cioffi disse ai fratelli che sembravano gemelli (ma avevano un anno di differenza, Paolo era più grande): “Perché non provate con l’atletica?”. E l’atletica volle dire un tecnico preparato, Antonio Rotundo, che accompagnò tutta la loro carriera. I tanti infortuni non impedirono ad Anna di vivere “quel fare atletica in modo discreto, sapendo il fatto suo”, come disse una volta Pietro Mennea.

Chi la conosceva da lontano, un saluto, una breve chiacchierata nell’allenamento, prima o dopo un meeting, veniva colpito dal suo sorriso.

“Un sorriso per ognuno” fu il titolo dell’articolo con cui Vanni Loriga la ricordò sulla rivista “Atletica” dopo l’incidente automobilistico che le costò la vita il 26 giugno del 1989. Un sorriso che colpiva tutti. Anna comparve in uno spot pubblicitario, recitò nel film “Scheggia di vento”. Ma lo sport era in cima a tutto, il tentativo di migliorare quell’11”63 realizzato sui 100 metri a 19 anni, il campo anche senza fissarsi sul cronometro. Soprattutto il campo e i pomeriggi pieni di colori. I colori dell’atletica. I colori di Anna.

FRANCO FAVA: IL GIRAMONDO DAL CUORE MATTO

Siepista, maratoneta, fotografo, giornalista, organizzatore, giramondo, protagonista e testimone di tanta, tantissima atletica. Ci sono molte parole che possono essere associate a Franco Fava. Una persona che ha corso e corre, con le gambe e le parole, sempre con uno speciale carburante: la curiosità.

Ma Franco ha fatto i conti anche con una fastidiosa compagna di viaggio nella sua carriera: la tachicardia. I suoi stop improvvisi nel mezzo di una gara sono diventati storia. Il suo “cuore matto” fu oggetto di studio. Per esempio, una mattina del 1978, domenica 30 aprile, l’Italia degli anni di piombo con Aldo Moro ancora vivo nelle mani dei suoi rapitori. Campionato italiano di maratona che scorre parallelamente alla grande festa degli 11mila della Roma-Ostia. Lui che parte con il numero 1 ma che all’ottavo chilometro si ferma una prima volta.

Sul pulmino che lo segue c’è un’equipe medica che “legge” i suoi battiti grazie al collegamento con un elettrocardiografo “cucito” sul suo corpo. Franco riprende, sta quasi riportandosi sulla coppia di testa formata da Magnani (che vincerà) e Accaputo, ma al venticinquesimo è costretto ancora a fermarsi. E a quel punto si ritira. La diagnosi dei medici: il problema non comporta rischi per la salute. Queste fermate improvvise però sono una zavorra che condiziona le mille imprese atletiche di Fava. Zavorra che non può però impedire a Franco di provare altre emozioni, incontrare altre storie, scoprire tanti, sorprendenti mondi, ad ogni età. Di corsa e non.

PANETTA D’ORO LANCIATO DA UN GRANDE FILM

Il 2 settembre del 1987 esce nelle sale cinematografiche il film “Un ragazzo di Calabria”.

Il regista è Luigi Comencini, nel cast ci sono anche Gian Maria Volonté (l’allenatore-autista di pullman che porta di nascosto il protagonista Mimì sulla strada dell’atletica) e Diego Abatantuono (il papà, totalmente contrario alla passione sportiva del figlio).

Due interpretazioni da applausi. La storia è quella di Mimì, che si scopre velocemente sui tornanti della strada per andare a scuola e poi rimane ipnotizzato dalle immagini della tv che porta nelle case il fascino delle Olimpiadi di Roma. Tre giorni dopo, allo stadio Olimpico di Roma, un ragazzo di Calabria, per la precisione di Siderno, provincia di Reggio Calabria, diventa campione del mondo dei 3000 siepi.

Insomma, il film porta fortuna. E anche se il copione è frutto pure delle telefonate fra il regista e un altro ragazzo vincente del sud, Pietro Mennea (che com’è noto era pugliese, di Barletta), è probabile che proprio l’azzurro delle siepi sia stato una fonte di ispirazione per Comencini. Fatto sta che per Panetta è il giorno più bello: dopo il secondo posto nei 10000, ecco la medaglia d’oro. A colpi di coraggio. A metà gara cade il keniano Kipkemboi proprio nel momento dell’allungo del calabrese. Un allungo che diventa fuga. Una fuga che, falcata dopo falcata, porta a un successo in un Olimpico pieno, pienissimo. Un ragazzo di Calabria trionfa. E stavolta non è solo un film.

SIMEONI E L’OLIMPICO IMPAZZITO PER L’ATLETICA

Primatista, olimpionica, professoressa, conduttrice televisiva. Una, dieci, cento Sara Simeoni. Cento come gli anni di un secolo. Un secolo in cui lei è stata la più brava atleta dello sport italiano. Saltando, certo, pure un record del mondo con il suo volo a 2,01. Vincendo, la medaglia d’oro olimpica a Mosca. Ma soprattutto trasmettendo – all’Italia tutta – l’idea di un protagonismo e di una determinazione al femminile che è diventata esempio, nello sport e fuori. Il suo nome è scritto su una delle mattonelle della walk of fame al Foro Italico. E la sua storia a Roma è lunga, lunghissima. C’è però una notte che forse le batte tutte anche se la concorrenza è grande. È la notte del 5 agosto del 1980, è la notte del mitico debutto del Golden Gala “inventato” da Primo Nebiolo.

C’è la medaglia d’oro di Mosca da festeggiare. Ma quella notte non è una celebrazione, è un tuffo nella bellezza dell’atletica e ha più di qualcosa di olimpico perché propone sfide vietate pure all’Olimpiade per il boicottaggio. È la notte del sold-out, come si dice oggi.

L’Italia è sotto shock per la strage di Bologna di tre giorni prima. C’è tanta tensione, le immagini della stazione sventrata con il suo terribile bilancio di 85 vittime riempie i pensieri di tutti. Forse anche per questo c’è voglia di ritrovarsi, di stare insieme. Sono tanti, forse 70mila, ma i conti sono tutti saltati: si pensava di tenere chiuse le curve che invece vengono aperte a furor di popolo. Davanti a tutto questo, Sara vince, anzi stravince tenendo lontanissime le avversarie con 1,98. Una serata da incorniciare.

IL VIAGGIO DI NICOLA E ALBERTO, QUELLI DELL’HIMALAYA

Si conoscono in una palestra. Nicola Pintus è un docente di educazione fisica, durante il servizio militare si è impegnato con le persone con disabilità. Alberto Rubino, che poi è il suo vicino di casa, è invece un ragazzo autistico e non parla dall’età di tre anni.

Fra di loro, è il 1986, scoppia una scintilla. C’è un complice del loro legame: si chiama sport, atletica in particolare, e quell’atletica specifica che è la corsa lunga, fino alla maratona. In effetti di complici ce ne sono due: c’è pure uno stadio, quello dell’Acqua Acetosa. In quelle corsie, Nicola e Alberto parlano con gli sguardi, le falcate, il fiatone.

La storia è nata sotto casa, ma poi si mette a fare il giro del mondo: partono, viaggiano, corrono. Eccoli a Boston, a New York, ovviamente a Roma. Ma anche in un’incursione sull’Himalaya, a 5300 metri di altitudine. Sono esperienze che li fanno diventare più che amici, quasi fratelli.

Ma succede un’altra cosa: Nicola e Alberto trovano altri fratelli e altri amici. E un nome: Progetto Filippide. E un colore: l’arancione delle maglie della squadra. Ora non sono più soli, arrivano altri ragazzi, altre storie che si incrociano, altri Alberto e altri Nicola che si legano. E a Filippide non bastano più i giovedì allo stadio Paolo Rosi, non basta più Roma. Il Progetto diventa grande, fa il Giro d’Italia, pianta radici, lo sport dei ragazzi autistici non è più un tabù. I due amici dell’Himalaya ne hanno fatta di strada.

KOSTADINOVA: UN RECORD CHE NON VUOLE FINIRE

Difficilmente nell’atletica il record del mondo si sposa con la medaglia d’oro. Ai Mondiali di atletica del 1987, nel giorno del trionfo di Maurizio Damilano, succede invece qualcosa di grande sulla pedana del salto in alto. Dove la bulgara Stefka Kostadinova conquista l’oro e consolida la sua arrampicata in cima al mondo. La ventiduenne dal piccolo e dolce neo sul volto, dopo aver rischiato grosso nel duello con Tamara Bykova a 2,04, superato solo alla terza prova, va oltre 2,06 e quindi prova 2,09.

L’asticella balla ma neanche troppo: Stefka stabilisce il suo terzo primato mondiale outdoor. Il pubblico dell’Olimpico l’ha già adottata e sugli spalti è tutto un “Alé ooh ooh”.

“Non dimenticherò mai quel giorno, il mio giorno perfetto”, dirà tanti anni dopo in un’intervista già nel nuovo ruolo di presidente del comitato olimpico della Bulgaria. L’Olimpico sarà solo l’inizio di una carriera luminosa che è stata anche una caccia al tesoro. L’oro olimpico è infatti arrivato soltanto nel 1996, ad Atlanta, dopo un continuo “non hai vinto, ritenta”. Il record della Kostadinova è tuttora in auge e in poche lo hanno avvicinato. Per l’Olimpico quell’anno fu d’oro. Poche settimane prima del volo di Stefka era stato il marocchino multidistanze del mezzofondo Said Aouita a stabilire il primato di 12’58”39 sui 5000 metri nel Golden Gala che aveva battezzato la nuova pista realizzata per i Mondiali. C’è ancora qualcuno che insiste sul fatto che a Roma fa troppo caldo e che quella dell’Olimpico non è una terra da record del mondo?

RENATO FUNICIELLO: UN GEOLOGO FRA LE RIPETUTE

Un uomo semplice, affabile, pieno di risorse quando si parlava di sport, dentro la scorza di un professore universitario, geologo di grande caratura, un curriculum che coerentemente con lo stile del suo personaggio, lui teneva a minimizzare. Un personaggio che scrive un libro in lingua inglese sugli studi dei terremoti in Italia e porta al Cus Roma una fialetta di polvere che tutti guardavano un po’ schifati, prima di spiegare con noncuranza che erano polveri lunari assegnate all’Italia dalla Nasa per studiarle: questa appassionata duplicità la dice tutta su questo grande ricercatore.

Ma attenzione, perché l’altro Funiciello, quello del campo, del cronometro, degli allenamenti dei fuoriclasse neozelandesi nei giorni delle Olimpiadi di Roma “spiati” con curiosità, non era da meno. È stato un grande tecnico che lavorando fianco a fianco con Oscar Barletta provava a cambiare il mezzofondo in Italia, senza fare rivoluzioni sanguinarie. Ha fatto un po’ tutto: dirigente, allenatore e anche presidente del comitato laziale dell’atletica.

Il ‘tutto’ svolgendo il proprio lavoro accademico e intercalandolo con il ruolo di semplice uomo da campo con la massima naturalezza, quasi fossero cose scontate e di nessuna rilevanza.

Questa sua doppia veste è finita anche in un libro, “Un geologo in campo”, che a dieci anni di distanza dalla sua morte ha voluto rievocare la doppia corsia della sua vita, la sua ricerca scientifica e l’irresistibile calamita che lo riportava in mezzo alle piste, per esempio con Umberto Risi, l’atleta simbolo della sua esperienza di tecnico, oggi grande dispensatore di consigli a tutto il popolo podistico dello stadio Paolo Rosi.

MARTIN, LA PROTESI ROTTA E QUEI 300 METRI PER MIGUEL

Martin Sharples è un ragazzo argentino che ama giocare a rugby, ma un incidente motociclistico travolge la sua passione. Deve ricominciare. E ricomincia anche con lo sport, in particolare prendendo a correre grazie a una protesi.

Ogni domenica mattina gareggia, il suo coraggio e le sue battaglie per i diritti degli atleti con disabilità fanno il giro di Buenos Aires. Fino a che scopre la storia di Miguel Sanchez, il fondista poeta desaparecido. Per lui quel ricordo diventa una straordinaria fonte di ispirazione che lo porta ad attraversare l’Oceano e a partecipare proprio alla Corsa di Miguel. Pure a Roma conquista i podisti che loaspettano all’arrivo nello stadio Paolo Rosi.

Ma Martin non arriva, passano i minuti e lui non arriva. Gli organizzatori si preoccupano, lo speaker non sa se chiudere il microfono e andare a chiedere notizie.

Succede tutto in un attimo: Martin entra nello stadio e lascia tutti sbigottiti, la sua protesi si è rotta e gli ultimi 300 metri li corre su una gamba sola. I partecipanti ancora rimasti sono inghiottiti dalla commozione: non c’è nessuna medaglia in palio ma quel traguardo vale un oro olimpico. E Martin lo conquista, pensando a Miguel e alla forza che ti può dare il suo ricordo

Per la cronaca, Martin è tornato diverse volte a Roma per correre. Una volta ha incontrato il biografo di Miguel, Ricardo Fernandez. Ed è anche tornato su un campo da rugby per giocare. Sempre con la sagoma di Miguel stampata sulla sua protesi.

ROBERTO FRINOLLI, IL MAESTRO DEGLI OSTACOLI

Un giorno poteva pure inventarsi una variazione sul tema: niente corse, ma tre salti in alto, una roba da 1,85 o giù di lì “in perfetto stile zompafratte” (l’espressione è sua). Altre volte il suo riscaldamento era particolarmente originale: tre chilometri sotto i 10 minuti. Nel frattempo, Amici e Zazzeretta, i custodi del campo dell’Acqua Acetosa, preparavano la pista in terra battuta che poteva consentirti una prova o due al massimo prima di diventare a rischio buche e infortuni.

Altro che tartan, quando poi arrivò la nuova superficie non è che a Roberto Frinolli, campione d’Europa dei 400 ostacoli nel 1966 e numero 1 al mondo, in quell’anno e anche la stagione precedente, piacesse parecchio. Quel materiale avvantaggiava gli specialisti più “fisici”, lui era soprattutto classe e allenamento. Originale, oggi impensabile: persino qualche galoppata fino a Ostia partendo dalle Tre Fontane, al tempo in cui Luciano Duchi non aveva ancora fatto nascere la tradizionale corsa verso il mare.

Frinolli è stato ed è un campione e un uomo riservato. Ma presente. E lo stadio oggi intitolato a Paolo Rosi ne è testimone. I suoi ostacoli, la sua “lotta”, parola che gli piace moltissimo, la sua affettuosa rivalità con Salvatore Tito Morale, i suoi consigli da allenatore, gli anni da direttore tecnico, quelli a guidare tanti atleti, fra i quali il campione del mondo Fabrizio Mori, la sua patente di “cussino” (nel senso di CUS Roma), la sua pipa, sono un capitolo ricchissimo della storia di questo campo. Dove in diversi hanno scelto la sua specialità, incluso il figlio Giorgio, oggi tecnico azzurro. O come Pina Cirulli, che dei 400 ostacoli con barriere è stata l’apripista italiana proprio su queste corsie magiche tanto care al Professore.

IL CAMPIONE PARTIGIANO ALLE FOSSE ARDEATINE

Vi sarà capitato mille volte di passarci. Un angolo che confina con via Marmorata e guarda la Piramide. Largo Manlio Gelsomini. Eroe della Resistenza, coraggioso combattente contro i nazisti nell’anno buio dell’occupazione di Roma, tradito da una spia in un bar di piazzale Flaminio, prigioniero nell’inferno del carcere nazista di via Tasso e poi finito fra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Quando riesumarono il suo corpo scoprirono tante pagine del suo diario nascoste nel cappotto che portava, un documento oggi custodito nel Museo della Liberazione e in diverse parti, inedito.

Ma Gelsomini fu anche un atleta. Atleta tutto di un pezzo prima che la sua professione di medico nel quartiere di San Lorenzo gli sequestrasse tutta la giornata. Anni 30, campione regionale dei 100 e dei 200 metri, un viaggio con la Nazionale maggiore in Inghilterra, 11 netti sulla distanza più breve con un tallone d’Achille: le false partenze.

Si allenava sull’anello dello stadio della Farnesina dove si presentava vestito tutto di bianco suscitando l’ammirazione degli aspiranti velocisti. Fino al sogno di andare alle Olimpiadi di Los Angeles, sfumato in mezzo ai libri di medicina e alle mattinate da tirocinante al Policlinico Umberto I. A un certo punto, nelle sue giornate non ci fu più posto per lo sport: ospedale al mattino, studio privato al pomeriggio, visite domiciliari di sera. Un atleta eclettico, che non disdegnava grandi nuotate sul Tevere per spezzare la giornata e intermezzi rugbistici in mezzo ai primi vagiti della serie A dell’ovale. Lui, che nell’atletica vestiva i colori della Roma, per cercare una meta indossava invece quelli della Lazio…