PERIS, QUELLA FIACCOLA È UNA MEDAGLIA D’ORO

In genere l’ultimo tedoforo è un campione simbolo del Paese che organizza le Olimpiadi. Una medaglia d’oro. Un numero 1. Un personaggio conosciuto da tutti. Ci sono però delle eccezioni nella storia, per esempio quella di Roma 1960. Quando l’organizzazione italiana decise che a portare la fiaccola nell’ultimo tratto, accendendo il braciere olimpico nella cerimonia di apertura, dovesse essere uno studente.

Lo studente vincitore dei campionati scolastici di corsa campestre della provincia di Roma. E così Giancarlo Peris da Civitavecchia, il 25 agosto del 1960, viene chiamato a Roma per vivere l’attimo fuggente che gli diede e gli dà ancora una fama universale.

Lo dimostra questa copertina. Il giornale è prestigiosissimo: L’Equipe, il quotidiano sportivo francese, che decide prima delle Olimpiadi di Tokyo 2021 di organizzare un reportage proprio sugli ultimi tedofori e sceglie forse il meno conosciuto.

Forse proprio per questo Peris, oggi distinto signore con la barba bianca che tradisce la sua carta di identità e ieri mezzofondista di buon livello nonché studente appena reduce dall’esame di maturità, diventa un simbolo. Immaginiamolo quel giorno. Peris è arrivato con il treno fino alla stazione Termini, poi ha preso l’autobus ed è arrivato a Piazza Mancini. Allo stadio gli hanno dato la maglia bianca con la lupa e i cinque cerchi e si sono raccomandati di fare le cose per bene sui 350 metri, che deve percorrere, e i 92 scalini, che deve salire.

All’inizio non si rende conto dell’importanza di quel momento, poi qualcosa cambia: perché negli anni Peris diventa una figura storica. Lo chiamano, vogliono sapere. Lui, migliaia di volte, tira giù dallo scaffale della memoria quel giorno ricordando soprattutto una cosa: “La paura di inciampare…”

PAMICH: RECORD MONDIALE PRIMA DI ROMA-TORINO

Roma e Torino giocheranno, sono i tempi di orario unico per il campionato, alle 14.30. Ma l’Olimpico apre molto presto perché è anche il giorno dell’atletica. È il 19 novembre del 1961 ed è in programma una 50 chilometri di marcia in pista, 125 giri da inanellare per arrivare nella terra promessa del primato del mondo. Lo stadio è quasi vuoto, saranno tre o quattromila gli spettatori che hanno voluto seguire gli atleti sin dall’inizio. Sono in otto e fra questi ne spiccano due: Pino Dordoni è stato campione olimpico nove anni prima a Helsinki in un’impresa celebrata pure dallo scrittore Italo Calvino. Abdon Pamich, invece, 14 mesi prima ha conquistato la medaglia di bronzo nei Giochi di Roma e tre anni più tardi arriverà niente meno che all’oro. Cinquanta chilometri tutti in uno stadio somigliano a una condanna, la marcia ha bisogno di strade, di asfalto, di boati quando il battistrada sbuca fuori da qualche porta ed entra sulla pista. Ma Abdon Pamich non si annoia, ha il suo da fare: mentre Dordoni si arrende per un problema al fegato e la concorrenza si sgretola progressivamente (alla fine con lui arriverà soltanto Carlo Bomba), tira dritto.

Ha solo un momento di difficoltà all’inizio dell’ultimo terzo di gara, ma resiste con la maglia indossata per tutta la carriera, quella della Esso. Il gesto del marciatore sembra glielo abbiano cucito addosso.

 

Ora lo speaker lo incita, gli dice che è sotto la tabella di marcia per superare il primato del mondo del sovietico Lobastov. Intanto, lo stadio s’è riempito, l’arrivo è celebrato da cinquantamila applausi e Pamich ce l’ha fatta: 4 ore, 14 minuti, 2 secondi e 4 decimi. Per lui, anche i complimenti del centravanti della Roma, “Piedone” Manfredini. È il primato del mondo e diventa un altro pezzo della collezione dei suoi tanti trofei.

L’INFINITA MERLENE: STREGATA DAL SILENZIO DEI GELSI

Ha vinto tanto, tutto, spesso, a lungo. Con un solo vuoto nel curriculum: l’oro olimpico, che sfiorò sui 100 metri di Atlanta nel 1996 condannata all’argento sul fotofinish.

Merlene Ottey – giamaicana di nascita e di crescita, poi slovena come nazionalità sportiva a fine carriera – è un mito dell’atletica. Stefano Tilli, compagno d’amore e di pista diversi anni fa, non fa che ripetere: “È stata la più grande”.

La sua carriera è stata una storia che non riusciva a finire: corse pure a 50 anni, un record di longevità imbattibile. Per un bel po’ di tempo, cinque anni, mise su casa a Roma. Abitava nel quartiere di Talenti, ma era allo stadio dell’Acqua Acetosa, l’attuale Paolo Rosi, che la si poteva incontrare. Discreta, silenziosa, lontana. Non dava confidenza, anche se alle volte sbocciava un sorriso, e nascevano situazioni simpatiche, come quella in cui è immortalata mentre mostra i muscoli in compagnia di Stefano Tilli.

Un giorno di pieno agosto la si vede uscire fuori come dal nulla a impianto chiuso: forse un buco nella recinzione, fatto sta che si trovò lo stadio tutto per sé e la sensazione non doveva dispiacerle.

La verità era che in quelle corse, in quelle curve pennellate con un’eleganza sinuosa davanti ai gelsi, c’era la sua dimensione, il posto dove si sentiva a suo agio. Fuori c’era l’altra Roma, spesso ingabbiata nel traffico. Dentro riusciva ad isolarsi, come se su quella pista ci fosse soltanto lei a dialogare con le corsie, sulla stessa superficie su cui sarebbe diventato grande anche Marcell Jacobs. Inimitabile Merlene.

MAZZONE: PRIMA DEL PALLONE IL SALTO IN LUNGO

Che c’entra “Er magara” con l’atletica? C’entra eccome! A proposito, “er magara”, per chi non conosce il soprannome, era Carlo Mazzone, il simbolo della professione dell’allenatore di calcio. Anni ‘50: è partito il movimento dell’atletica romana fatto anche di società di “liberi”, ovvero non tesserati, che fanno il tirocinio sotto forma di gare con il Palio dei Quartieri, prima di accedere all’attività federale.

Nascono allora la Virtus Salario, la Vis suddivisa in tre, Nomentano, Centro ed Esquilino-Augusto, il Monte Mario, la Lungaretta e altre ancora. Già, nella Lungaretta c’è il dirigente Gaetano Quattrucci con a fianco il giovane Enrico Pitti, mezzofondista di belle speranze e futuro trascinatore dell’attività dell’Uisp negli anni ruggenti di Corri per il Verde. C’è uno slogan che fa fortuna di questi tempi, lo ha coniato Alfredo Berra, il giornalista-organizzatore-tuttofare dell’atletica. Poche parole semplici: portate al campo l’amico più vicino di casa.

Enrico Pitti lo prende in parola e si rivolge all’amico che abita all’Arco di San Calisto a Trastevere, un lungagnone forte che alla Farnesina salta 5,80 nel salto in lungo con le scarpe di gomma al primo apparire. Una rivelazione, ma lui fa il ritroso, poi confessa: “gioco a pallone co’ la Roma, spero de fa’ carriera, nun posso venì a core”. Finisce qui l’atletica di Carletto e cominciano tante altre storie: corse sotto la curva, promozioni, invenzioni tattiche, e poi Totti, e Baggio, e Guardiola… Ma per anni incontrando gli amici nei più disparati spogliatoi degli stadi italiani, si finiva per rivangare quel momento e lui con un sorriso tutto cuore chiosava: “Ma lo sapete che ero proprio bravo?”.

CAPANNELLE: LA DOMENICA DEI RE DEL CROSS

La settimana prima era toccato ai maratoneti. 1982, la prima Romaratona, la green line importata da New York sull’asfalto di Roma, Pippo Baudo che se la prende con gli effetti delle chiusure del traffico in diretta a Domenica In. Poi, lo testimonierà un’intervista diversi anni dopo, capirà. Capirà il fascino della corsa e di una domenica in cui le automobili per una volta non sono padrone di tutto.

Una settimana dopo è il 21 marzo, la grande atletica si trasferisce all’ippodromo delle Capannelle. Sono già i Mondiali di corsa campestre, ma per molti resiste ancora il vecchio e affascinante nome: Cross delle Nazioni. Dopo un avvincente testa a testa, l’etiope Kedir supera lo statunitense Salazar. Alberto Cova, futuro campione di tutto sui 10000 metri, è settimo. Nella gara femminile, Agnese Possamai è quarta.

Ma anche nella gara junior ci sono attimi di grande emozione. Succede quando Stefano Mei, futuro campione d’Europa dei 10000 e futuro presidente federale, si trova da solo stretto nella morsa della “dittatura” etiope. Finisce al terzo posto. Scriverà Sergio Rizzo su “Atletica”: “Mentre tutti gli facevano i complimenti, lui si dannava per la mancata vittoria”. Dietro di lui, altri italiani: Panetta sesto, Nicosia settimo. L’Italia junior a squadre è seconda. Dietro gli eredi di Bikila, ci siamo noi.

 

Capannelle resterà un luogo consacrato a un altro sport e a un altro mondo, quello dei cavalli. Ma l’ippodromo ha sempre di più una robusta identità multidisciplinare. Ha ospitato anche momenti di grande ciclocross e ha aperto le porte pure alla scuola di atletica del Roma Runners Club.

Con un occhio agli amatori e al loro mondo come dimostra lo sbarco da queste parti della Cardiorace.

I PODISTI IN MEZZO AGLI SGUARDI DI ANNA MAGNANI

È domenica mattina. Novembre. Il giorno di una piccola grande tradizione: una gara podistica. Corriamo al Tiburtino. Gli atleti sciamano silenziosi per riscaldarsi, altri già depositano le tute e le felpe nei gazebo dei gruppi sportivi. Scatta il conto alla rovescia. Ma qualcuno si attarda, merito e colpa degli occhi che puntano verso l’alto e incontrano il fascino di Anna Magnani. L’attrice di tante favolose interpretazioni, da Roma Città Aperta a Mamma Roma, ci guarda con tre espressioni che diventano una calamita, impossibile allontanare gli occhi da quelle immagini disegnate dallo street artist Lucamaleonte nell’ambito del progetto Roma Cares.

Se qualcuno ha ignorato Anna in partenza c’è una prova di recupero durante la gara, che passa e ripassa per quell’incrocio tra via della Vanga e via Mozart. Forse i più giovani non sanno della Magnani, del suo talento, della sua romanità, della sua storia. Una storia che ha a che fare, fra mille cose, anche con l’atletica, indirettamente. Perché fra i suoi amori ci sono stati due atleti che hanno frequentato l’atletica di alto livello: Goffredo Alessandrini, che fu suo marito, nel 1925 si laureò (ancora non si conoscevano al tempo) campione d’Italia dei 110 ostacoli; più tardi, Massimo Serato, praticò il lancio del giavellotto.

Chissà se a lei piaceva l’atletica. Ma intanto la domenica dei podisti sta finendo, c’è chi è andato al ristoro, chi è salito sul podio, chi maledice i classici acciacchi del corridore. Ci si dà appuntamento per la prossima volta. E a quel punto si alzano ancora gli occhi ancora attratti da quelle immagini. È il momento di dire: ciao Anna.

LA TORTA DI JACOBS: “IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE”

Marcell Jacobs era appena tornato dal suo primo grande successo, la vittoria nei campionati europei indoor di Torun, in Polonia.

Sembrava un giorno come tutti gli altri, ma appena varcata la soglia di ingresso dello stadio Paolo Rosi, a Roma, si rese conto che nella sua “seconda casa” qualcuno gli aveva preparato un’accoglienza speciale.

Lo striscione diceva “onore al campione d’Europa”. Ma era la torta a spingersi più in là con un pronostico vestito da speranza che diventò poi realtà a Tokyo. Con la panna e il cioccolato era venuta fuori questa scritta: “Il meglio deve ancora venire”. E venne. E venne grazie a questo stadio che ha il nome del telecronista che raccontò la grande impresa di Pietro Mennea a Mosca e tante altre storie. Sulla pista del Paolo Rosi, Marcell Jacobs è diventato grande, grandissimo.

La sua zona di lavoro è sempre stata quella del rettilineo finale, con il lettino per i massaggi all’altezza del piccolo boschetto che gli amatori sfruttano per accumulare chilometri. Jacobs si è sempre mischiato con loro, a volte condividendo qualche battuta per salutarsi, come con i ragazzi autistici del Progetto Filippide. Poi, è partito per gli Stati Uniti. Ma sa che questo rimarrà il luogo del cuore e un posto dove ritrovarsi, il suo personale Colosseo (quello vero se l’è tatuato addosso), un paesaggio che, parole sue, “sarà sempre con me”.

HOWE E QUELLA STRETTA DI MANO CON WOJTYLA

È il 29 ottobre del 2000. Giovanni Paolo II celebra allo stadio Olimpico il Giubileo degli Sportivi. La Nazionale di calcio incontra una selezione di giocatori stranieri del campionato italiano.

In Curva Sud, viene esposta una maglia azzurra con il numero 22, tanti sono gli anni del suo Pontificato. Il Papa richiama i 70mila dello Stadio a fare ogni sforzo “per la salvaguardia del corpo umano” difendendolo da “ogni attentato alla sua integrità, da ogni sfruttamento, da ogni idolatria”. Si coglie l’allusione al cancro del doping.

Poi Wojtyla stringe la mano a Roberto Baggio, poi a Francesco Totti, mentre Antonio Rossi, il canoista due volte d’oro alle Olimpiadi, prende la parola in rappresentanza di tutti gli atleti. Fra questi c’è un quindicenne, nato in America, cresciuto a Rieti, grande speranza dell’atletica italiana: si chiama Andrew Howe, è allenato dalla mamma, appena tre settimane prima ha stabilito il record italiano del salto in lungo nella sua categoria con 7 metri e 52 centimetri. Fa tutto, e lo fa bene, ballando con disinvoltura fra la pista per la velocità e le pedane.

Pietro Mennea con Andrew Howe e la madre Renée Felton – Fotografo: Tedeschi

L’incontro fra il Papa e il futuro vicecampione del mondo diventa uno dei simboli della giornata: la rivista della Studentesca Cariri, la società per la quale Andrew gareggia, lo celebra. Una giornata che Howe non dimenticherà, come quella in cui incontrò Mennea, immenso mito sportivo, in un ristorante affacciato sul Tevere.

LA CORSA: I GIGANTI DEL VILLAGGIO OLIMPICO

Abitano al Villaggio Olimpico, nel grande piazzale del mercato del venerdì. Hanno quasi cent’anni, ma se li portano bene. Guardano tutti dall’alto verso il basso con i loro due metri e mezzo. Eppure, non incutono timore, qualcuno ci vede invece tenerezza. Sono le figure della scultura “La corsa”, una delle quattro della serie di Amleto Cataldi, l’artista a cui furono commissionate per lo Stadio Nazionale, il papà del Flaminio, in occasione della ristrutturazione del 1929.

In effetti, quello fu il grande momento dei giganti, che adornavano lo spettacolare ingresso all’altro lato dell’area dell’impianto, in direzione Piazza del Popolo. C’erano pure loro a dare il benvenuto agli spettatori quando la nazionale italiana di calcio vinse il Mondiale nel 1934. Un’altra ristrutturazione, però, sancì lo sfratto. Finirono nei magazzini del comune di Roma fino a che furono proprio le Olimpiadi a suggerire di riscoprirli. I giganti, però, erano in condizioni pessime, dimenticati da tutti.

Fu allora che si pensò a una nuova casa. E sorse l’idea del Villaggio Olimpico, subito però osteggiata – così dicono i racconti dei cittadini più fedeli alla zona – da un movimento nato nella vicina parrocchia e perplesso per il “mancato abbigliamento” dei giganti. Fatto sta che quest’ostracismo fu battuto.

E ora eccoli lì, con quel titolo, “La corsa”, che dà l’idea di un movimento permanente pur stando fermi. Li conosceva bene, i giganti, anche Mauro Valeri, sociologo appassionato, grande studioso del razzismo nello sport e suo coltissimo nemico, che si era sempre speso per la conservazione della memoria di questi luoghi figli della Roma olimpica. Una persona che manca allo sport. E anche a questi giganti suoi vicini di casa.

PASOLINI DIVENTÒ L’AMICO DEL SALTO TRIPLO

Pier Paolo Pasolini era uno sportivo. Andava in bicicletta sulle Dolomiti, era tifosissimo del Bologna, all’università aveva giocato a basket. Quando arrivò a Roma, cominciò a inseguire tanti palloni in periferia. Il regista-scrittore-polemista in gioventù si era anche cimentato nell’atletica. E proprio un suo amico, Luciano Serra, raccontò di una gara dei 1500 metri in cui il futuro autore di “Ragazzi di vita”, piegato da un attacco di dissenteria, finì la sua corsa nei bagni dello spogliatoio. Serra era un saltatore. Un triplista, autore peraltro di una pregevole “Storia dell’atletica europea”. Fu un amico carissimo di Pasolini. E forse gli istillò anche il gusto per l’hop step jump dell’atletica.

Trent’anni dopo, nel 1969, Pasolini incrociò un altro triplista, uno che era stato primatista del mondo e l’anno prima aveva conquistato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico: Giuseppe Gentile.

Fisico scultoreo e talento puro, al saltatore fu offerta la parte di Giasone nella Medea pasoliniana, ora recentemente restaurata per l’ultimo Rome Film Festival.

Inizialmente il saltatore, preso dai suoi impegni sportivi, disse no. Poi, complice qualche infortunio di troppo che non gli dava tregua, si buttò nell’impresa che condivise con il grande regista e con Maria Callas, che interpretava appunto Medea per la tragedia scritta da Euripide. Le riprese furono girate in Siria, in Turchia, a Pisa e a Grado, ma il cast trascorse diverso tempo a Roma ed è qui che Pasolini incaricò Gentile e il suo amico Gianni Brandizzi, discobolo e anche lui fra gli attori del film nella parte di Ercole, di fare da ciceroni per la Divina Callas nelle serate di Roma.