IL DISCOBOLO LANCELLOTTI È TORNATO A CASA

Ha più o meno 18 secoli, ma se li porta benissimo. Guardando polpacci e addominali, sembra quasi che da un momento all’altro il discobolo Lancellotti possa muoversi, diventare carne e ossa, lanciare. La scultura è esposta a Palazzo Massimo, sede del Museo Nazionale Romano. La sua vita è stata piuttosto agitata, soprattutto negli ultimi decenni. Fu scoperto presso Villa Palombara, all’Esquilino, nel 1781, e deve il suo nome alla famiglia Lancellotti che ne deteneva la proprietà. Hitler se ne innamorò fino al punto di costringere Mussolini a tradire la legge che stabiliva le “norme per l’inalienabilità delle antichità e delle Belle Arti”. L’ingombrante alleato nazista voleva a tutti i costi quell’atleta di marmo che probabilmente gli ricordava una scena di “Olympia”, il film commissionato a Leni Riefenstahl sui Giochi di Berlino 1936. Il discobolo di Mirone si scioglie in una sorta di macchina del tempo che lo porta nel ventesimo secolo con le sembianze di un atleta tedesco, Erwin Huber. Il 20 aprile 1938, giorno del compleanno di Hitler, ci fu la prima di “Olympia”. Meno di un mese dopo, il 18 maggio, la statua partì per la Glyptothek di Monaco di Baviera.

Un affare perfettamente legale: la Germania pagò 16 milioni di lire all’accondiscendente alleato, transazione legale che a fine conflitto ne ostacolò la restituzione. Il discobolo, per fortuna, si salvò dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale: il 16 novembre 1948 – anno della vittoria del discobolo Adolfo Consolini alle Olimpiadi di Londra e atleta prescelto per il giuramento olimpico 12 anni dopo – ritornò a Roma, dove vive ancora. Chi lo incontra per la prima volta è incuriosito soprattutto dallo sguardo rivolto all’indietro, come se volesse specchiarsi nella perfezione del gesto. Un gesto immortale.

CORRI PER IL VERDE: VADE RETRO CEMENTO

C’era una volta Corri per il Verde. C’era e c’è ancora a distanza di più di cinquant’anni dalla prima volta. Un circuito di corse campestri: scritta così non è una grande notizia, chissà quanti ce ne sono. Se gratti un po’, però, ecco che compare la storia: i primi anni ‘70, le lotte per difendere il verde dall’assalto del cemento, la scoperta dei parchi archeologici, la Roma di periferia che si prende il centro del palcoscenico podistico, l’atletica che sta diventando anche jogging per poi arrivare alle grandi maratone di massa. Tutto nasce dalle idee di un ispirato giornalista, Giuliano Prasca, che inventa questo viaggio autunnale per la città. Villa Borghese e l’Insugherata (allora senza cinghiali…), la Caffarella e il Pineto, Centocelle e Cinecittà: verde curato, verde assediato, verde spelacchiato, verde da difendere.

Qualcuno pensa a vincere, molti soltanto ad arrivare. E a vedere il proprio nome sul giornale. Per quello, però, bisogna aspettare 48 ore: solo al martedì, e nell’edizione delle cinque del pomeriggio, il quotidiano “Paese Sera” pubblica classifiche e fotografie. Corri per il Verde è una mezza rivoluzione anche per un altro motivo: è la scoperta della corsa “per”, l’atletica come un modo per sostenere una causa, una formula che diventerà sempre più diffusa e che oggi alimenta gran parte del calendario podistico, a Roma e altrove.

La corsa, organizzata da sempre dall’Unione Italiana Sport per Tutti di Roma, è ancora viva e vegeta e si è sempre più specializzata in un promettente vivaio frequentato da migliaia di giovani. Non solo ricordi o memoria, ma anche progetti, futuro, sogni. Guardando l’Aniene a distanza ravvicinata o in mezzo alla bellezza mozzafiato di Ostia Antica. L’importante è correre. E farlo “per” qualcosa è ancora più bello.

BOMBA, MARCIA FRA I PADIGLIONI DELL’ELETTROSHOCK

Marciava. Qualche volta vinceva. Una in particolare: la Roma-Castelgandolfo del 1956. Ma i grandi non c’erano, gareggiavano alle Olimpiadi di Melbourne. Soprattutto si allenava. Sempre, tanto.

Carlo Bomba, Carletto per gli amici, era un personaggio che, quando lo conoscevi, ti sembrava di averlo incontrato mille volte. Aveva un che di familiare, ti veniva voglia di carezzargli la pelata e di chiedergli perché s’era innamorato della specialità più faticosa dell’atletica. Lui rispondeva e nei suoi discorsi faceva capolino spesso il quartiere, il suo quartiere: Monte Mario.

Raccontava degli autisti dell’Atac che gli suonavano il clacson per incoraggiarlo nelle sue collezioni di chilometri. E di un luogo del cuore: il parco del Santa Maria della Pietà. Quello che ospitò fino alla fine degli anni ’70 un manicomio, oggi trasformato in Museo della Mente. Ogni tanto, incontrava quelle persone reduci dai padiglioni dell’elettroshock, le incrociava e le salutava. Un’umanità sofferente su cui magari Carletto avrà riflettuto mille volte nei pensieri che facevano compagnia ai chilometri. Quando il manicomio chiuse, Bomba aveva lasciato la marcia per la corsa, ma era ormai un grande ex. Che però non riusciva a fare a meno di quel luogo, di quegli alberi, di quei padiglioni, reperti di un tempo lontano.

Continuava ad allenarsi in quello che ormai era diventato un parco. Poi lasciò Roma e Monte Mario, finì a Tragliatella di Fiumicino da dove raggiungeva ogni mattina la spiaggia di Marina di San Nicola per continuare a muoversi. Al primo pomeriggio, però, non c’era verso: prendeva il trenino e tornava al Santa Maria della Pietà su una panchina che era diventata la sua casa. Pensando ai chilometri dei suoi giorni migliori.

CALCATERRA, VILLA PAMPHILIJ METRO PER METRO

Sembrava quasi che Giorgio Calcaterra volesse aspettare l’apertura al pubblico di Villa Pamphilj per venire al mondo.

Il 1972 è infatti l’anno della nascita del centochilometrista più famoso, collezionista di maratone e uomo simbolo dell’atletica fuori dagli stadi. Ma anche quello in cui, il comune di Roma può finalmente aprire le porte del grande parco che negli anni diventerà il polmone verde ideale per gli amanti del jogging. Calcaterra e Villa Pamphilj o a Villa Pamphilj, una sorta di sindaco di questi viali che conosce metro su metro e su cui si allena praticamente da sempre, da quando – il 14 marzo del 1982 – scoprì la corsa affrontando con suo padre la Stracittadina dell’allora nascente Romaratona. Difficile calcolare quanti chilometri abbia percorso all’interno di Villa Pamphilj. Tanti, tantissimi. Con il sole, la pioggia o la neve.

Tempo fa, Giorgio mise insieme i suoi stati d’animo di quando correva in Villa. “1 gennaio, ore 7, nebbia che si alza dai prati, piccole stalattiti sulle fontane, laghetto ghiacciato”. E ancora: “21 marzo, ore 10, cielo azzurro, mimose fiorite sugli alberi, margherite sui prati e ragazze allegre che corrono”. Prima di una 100 chilometri la sua abitudine è un lungo, infinito allenamento su questi sentieri. Una volta, nel 2007, entrò all’ora di pranzo e corse per 88 chilometri fino alla chiusura. Impossibile calcolare quante persone abbia incontrato. Sicuramente è uno che dà del tu a questo luogo, a queste atmosfere, a questi scenari.

Insomma, ogni volta che si entra in Villa, magari per camminare o correre o semplicemente per leggere su una panchina, non puoi non pensare che da un momento all’altro possa uscire lui, con il suo sorriso, la sua falcata, le sue occhiate a ciò che lo circonda. Questa è casa sua.

PIETRO MENNEA E QUEL “COMIZIO” A VILLA ADA

Che fine avranno fatto le ragazze e i ragazzi di quel giorno? Il giorno in cui, il 4 dicembre del 2004, Pietro Mennea si infilò cappotto e sciarpa e rispose “arrivo” alla telefonata di Pino Papaluca, barbiere e ultramaratoneta protagonista di mille imprese, dalla Amman-Bagdad contro l’embargo in Iraq alla Mosca-Roma per la pace nell’anno del Giubileo del 2000, tutto rigorosamente a piedi.

A Roma, Pietro ha vissuto e vinto tantissimo, e a lui sono dedicati tanti luoghi della capitale. Non solo, infatti, il meraviglioso Stadio dei Marmi a due passi dal Coni: ad esempio, recentemente è stata rinnovata e intitolata al velocista pugliese anche la pista del plesso scolastico “Rosa Parks” a Centocelle. Ci sono tante immagini che testimoniano le sue gesta romane, dal trionfo nei 200 metri degli Europei del 1974 alla prima edizione del Golden Gala del 1980 quando ribadì il successo olimpico davanti agli statunitensi che il giorno della sua vittoria allo stadio Lenin non c’erano per il boicottaggio.

Eppure, questo scatto autunnale, all’ingresso di Villa Ada, lui con il megafono e loro con la maglietta della “Corsa della pace e per i diritti” organizzata da Papaluca, ha una dolcezza strepitosa. Quel giorno, Pietro parlò della Casa del Nino in Perù, nell’ambito di una raccolta fondi organizzata proprio dal barbiere ultramaratoneta. Non fu la sola occasione. Perché a un certo punto della sua vita, Mennea scelse di portare in giro le sue medaglie d’oro per legarle a tante iniziative sociali. E diventò campione olimpico un’altra volta.

BOLDT: UN SALTO (CON UNA GAMBA SOLA) NEL FUTURO

C’è un giorno da segnare in rosso nella storia del movimento paralimpico italiano e mondiale: il 2 aprile del 1981. 24 ore prima si era svolto a Roma il convegno “L’handicappato e lo sport” organizzato dal Coni. E pochi mesi prima era nata la Federazione Italiana degli Sport Handicappati.

Erano proprio i Giochi Internazionali per handicappati a cui avrebbero preso parte 500 atleti, gli handicappati. L’espressione è stata travolta dal tempo e dalla diffusione degli sport fra le persone con disabilità, ma allora era un vocabolo che andava per la maggiore.

A prenderla a schiaffi fu un canadese di 23 anni, Arnie Boldt, che saltò in alto 2 metri e 4 centimetri su una gamba sola allo stadio dei Marmi. L’emozione per l’impresa dell’atleta amputato fu enorme: se ne parlò nei programmi televisivi, i giornali cominciarono a scoprire un mondo fino a quel momento confinato in una periferia consolatoria lontana dal centro della scena.

Ci si interrogò su quel balzo prodigioso compiuto senza l’ausilio della protesi. Ancora a Roma. In cui era già stata scritta un’altra pagina preziosa: ventuno anni prima la città aveva ospitato le prime Paralimpiadi organizzate nella stessa sede delle Olimpiadi, con la cerimonia di apertura organizzata all’Acqua Acetosa. A distanza di un paio di chilometri di Lungotevere, grazie allo straordinario canadese, questo movimento scoprì una nuova dimensione. Da quel momento, il movimento paralimpico, all’interno del quale Boldt sarebbe rimasto tanti anni provando anche il ciclismo, era entrato nel futuro.

QUANDO ABEBE BIKILA TORNÒ DAL “SUO” COLOSSEO

Il giorno della gloria fu il 10 settembre 1960. I Giochi della XVII Olimpiade salutano con la maratona, la gara più classica, uno dei simboli dei Giochi. Abebe Bikila, etiope, maglia verde, pettorale numero 11, porta il suo continente sulla carta geografica dello sport.

Lo fa con una gara che rimane nella storia: corre per tutti i 42 chilometri e 195 metri a piedi nudi.

Bikila con il suo allenatore, lo svedese di origini finlandesi Onni Niskanen, ha studiato il percorso e in particolare il pavimento leggendario dell’Appia Antica, i famosi basoli della superficie, ricavando la certezza che i piedi nudi garantiscono maggiore sensibilità delle calzature (eravamo lontani dalle scarpe prodigio di ora).

Fatto sta che Abebe si presenta da solo sulla via dei Trionfi, oggi via di San Gregorio. Taglia la linea del traguardo e, freschissimo, si ferma sotto l’Arco di Costantino per un po’ di stretching e defaticamento. Quasi un modo di dire al mondo: guarda che la maratona non è una follia e chi la corre non è un matto.

Cinque mesi dopo, Bikila torna a Roma per una serata televisiva che ricorda le imprese olimpiche. Fa coppia con Gina Lollobrigida e Anna Magnani, saluta il suo compagno d’oro Livio Berruti, visita il Foro Romano con Romolo Marcellini, il regista del film dei Giochi, “La Grande Olimpiade”. L’immagine più bella è quella in cui passa disinvolto davanti al Colosseo, con lo sguardo di chi si sente a casa. Roma è e resterà sempre un po’ sua.

LIVIO E WILMA “UN GIORNO MI PRESE LA MANO”

Lui ce l’ha ancora. Livio Berruti ha ancora la tuta che Wilma Rudolph gli diede quel giorno, il giorno della foto al Villaggio Olimpico. L’Olimpiade del 1960 li aveva coperti d’oro: lui vinse i 200 con una strepitosa volata accompagnata dal volo dei colombi, lei 100, 200 e staffetta 4 x 100. Fu l’allenatore di lei a combinare l’incontro per lo scambio di tute.

Lui aveva vinto dopo aver studiato sul manuale universitario di chimica organica fra la semifinale e la finale: quel suo trionfo non scalfì la sua normalità di diligente studente universitario. Lei era diventata la donna più veloce del mondo dopo aver passato i primi sette anni della sua vita senza poter camminare per la poliomielite. Fino a 11 anni fu costretta a usare le stampelle e dicono che proprio quando dei ragazzini gliele avevano rubate per uno scherzo di pessimo gusto, imparò a fare da sola. Prima a camminare. Poi a correre. Forte, veloce, come nessuna al mondo. “Aveva un sorriso magnetico che catturava”, raccontò negli anni il campione azzurro. Fino a una confessione: “Un giorno mi prese la mano, fu lei, lo giuro”.

Berruti ammise di aver sperato che alla fine dei Giochi ci potesse essere un po’ di tempo per stare insieme. Ma gli atleti statunitensi venivano rispediti a casa subito dopo aver concluso le gare e allora rimasero nella memoria soltanto i grandi sorrisi che si scambiarono. Wilma sparì e Berruti rimase solo in via Argentina, dove c’era la palazzina della squadra italiana.

BERRA. UN “PROFETA” TRA ATLETICA E GIORNALISMO

Alfredo Berra è stato un grande giornalista, prima al Corriere dello Sport poi alla Gazzetta, ma anche tecnico, dirigente e pionieristico organizzatore nel mondo dell’atletica negli anni Sessanta. Al suo attivo professionale ha quattro Olimpiadi – Roma, Tokyo, Messico e Monaco – prima dell’ictus che lo bloccò per il resto della sua vita e della carriera quando non aveva ancora 46 anni. A ricordo del suo impegno a tutti i livelli e per i risultati conseguiti gli è stato dedicato lo “Stadio degli Eucalipti” del Valco San Paolo, attualmente gestito dall’Università Roma Tre, grazie all’opera di  Renato Funiciello.

La pista viene utilizzata per corsi di atletica anche esterni all’università: il pomeriggio tanti ragazzi vi si ritrovano per allenarsi. Un segno di continuità.

Berra riusciva a trasferire la sua naturale passione per l’atletica leggera ai più giovani. Era stato l’ideatore e il fondatore, con altri giovani atleti-dirigenti, del Club Atletico Centrale nel 1959, società che in tre anni, partendo da zero, come zero erano le possibilità economiche, ebbe il merito di vincere il titolo italiano di corsa campestre a squadre e di arrivare quarta nel campionato italiano di società dietro Esercito (con il nome di VIII Comiliter), Fiat e Fiamme Gialle (una presenza sempre solidissima nel mondo dell’atletica) prima di far confluire tutto nel Cus Roma, tranne i giovani campioni d’Italia, nel 1962. Per il Club Atletico Centrale sono transitati grandi atleti. Un nome: Giancarlo Peris, il tedoforo che ha acceso il tripode all’Olimpiade del ‘60 a Olimpico.

ALBERTONE MARCIAVA PER CONQUISTARE MARGHERITA

“Buon giorno signori, devo firmare?”. “Ma lei chi è? Ma che s’è messo? Perché porta la maschera?”. “Io sono un corridore, scusi, vorrei in questa corsa, di cui certamente sarò il vincitore, mantenere l’incognito. Sarebbe possibile?”.
“Macché incognito, si tolga la maschera, non faccia il buffone, vada via!”.
All’inizio della sua carriera, Alberto Sordi è stato un marciatore in “Mamma mia che impressione”, pellicola uscita nel 1951.

La regia era di Roberto Savarese, il soggetto invece si deve allo stesso Sordi insieme con Cesare Zavattini, mentre la produzione fu di Alberto con Vittorio De Sica.
Il film, non particolarmente fortunato sia per la critica sia al botteghino, è una gag dopo l’altra proprio lungo la zona del Foro Italico (ma l’Olimpico ancora non c’era) con un approccio alla gara di 25 chilometri subito farsesco. Siamo infatti a Lungotevere Cadorna, davanti alle Piscine, quando si comincia: un tratto di strada dove sarebbero poi passate centinaia di corse podistiche. Uno strategico sbaglio di strada in piazza Maresciallo Giardino permette a Sordi di recuperare sul gruppo dove c’è Arturo, rivale in amore per la conquista di Margherita.
Seguiranno esilaranti tratti di percorso in autobus o in bici prima dell’arrivo. Poi Sordi, anche cinematograficamente parlando, si darà al calcio come presidente del Borgorosso Football Club, ma prima di tutto ci fu l’atletica…