Abitano al Villaggio Olimpico, nel grande piazzale del mercato del venerdì. Hanno quasi cent’anni, ma se li portano bene. Guardano tutti dall’alto verso il basso con i loro due metri e mezzo. Eppure, non incutono timore, qualcuno ci vede invece tenerezza. Sono le figure della scultura “La corsa”, una delle quattro della serie di Amleto Cataldi, l’artista a cui furono commissionate per lo Stadio Nazionale, il papà del Flaminio, in occasione della ristrutturazione del 1929.
In effetti, quello fu il grande momento dei giganti, che adornavano lo spettacolare ingresso all’altro lato dell’area dell’impianto, in direzione Piazza del Popolo. C’erano pure loro a dare il benvenuto agli spettatori quando la nazionale italiana di calcio vinse il Mondiale nel 1934. Un’altra ristrutturazione, però, sancì lo sfratto. Finirono nei magazzini del comune di Roma fino a che furono proprio le Olimpiadi a suggerire di riscoprirli. I giganti, però, erano in condizioni pessime, dimenticati da tutti.
Fu allora che si pensò a una nuova casa. E sorse l’idea del Villaggio Olimpico, subito però osteggiata – così dicono i racconti dei cittadini più fedeli alla zona – da un movimento nato nella vicina parrocchia e perplesso per il “mancato abbigliamento” dei giganti. Fatto sta che quest’ostracismo fu battuto.
E ora eccoli lì, con quel titolo, “La corsa”, che dà l’idea di un movimento permanente pur stando fermi. Li conosceva bene, i giganti, anche Mauro Valeri, sociologo appassionato, grande studioso del razzismo nello sport e suo coltissimo nemico, che si era sempre speso per la conservazione della memoria di questi luoghi figli della Roma olimpica. Una persona che manca allo sport. E anche a questi giganti suoi vicini di casa.