Ha vinto tanto, tutto, spesso, a lungo. Con un solo vuoto nel curriculum: l’oro olimpico, che sfiorò sui 100 metri di Atlanta nel 1996 condannata all’argento sul fotofinish.
Merlene Ottey – giamaicana di nascita e di crescita, poi slovena come nazionalità sportiva a fine carriera – è un mito dell’atletica. Stefano Tilli, compagno d’amore e di pista diversi anni fa, non fa che ripetere: “È stata la più grande”.
La sua carriera è stata una storia che non riusciva a finire: corse pure a 50 anni, un record di longevità imbattibile. Per un bel po’ di tempo, cinque anni, mise su casa a Roma. Abitava nel quartiere di Talenti, ma era allo stadio dell’Acqua Acetosa, l’attuale Paolo Rosi, che la si poteva incontrare. Discreta, silenziosa, lontana. Non dava confidenza, anche se alle volte sbocciava un sorriso, e nascevano situazioni simpatiche, come quella in cui è immortalata mentre mostra i muscoli in compagnia di Stefano Tilli.
Un giorno di pieno agosto la si vede uscire fuori come dal nulla a impianto chiuso: forse un buco nella recinzione, fatto sta che si trovò lo stadio tutto per sé e la sensazione non doveva dispiacerle.
La verità era che in quelle corse, in quelle curve pennellate con un’eleganza sinuosa davanti ai gelsi, c’era la sua dimensione, il posto dove si sentiva a suo agio. Fuori c’era l’altra Roma, spesso ingabbiata nel traffico. Dentro riusciva ad isolarsi, come se su quella pista ci fosse soltanto lei a dialogare con le corsie, sulla stessa superficie su cui sarebbe diventato grande anche Marcell Jacobs. Inimitabile Merlene.